Genitori oppressivi nello sport
Intervista a Diego Polani
Quando si parla di sport, si tende spesso ad associargli concetti quali la vittoria, i sacrifici, il fair play e quanto di più bello una disciplina possa riservare. Ci si dimentica, invece, del rovescio della medaglia: costrizioni e obblighi imposti agli atleti che non vivono più lo sport come un piacere, comportando pesanti conseguenze, qualunque sia la loro età. Accanto ad allenatori che pretendono l’impossibile, si pongono spesso genitori che sbandierano ai quattro venti le potenzialità del figlio, che ne esaltano le prestazioni e che già lo immaginano alle Olimpiadi, senza pensare che, forse, in questo modo gli precluderanno tale possibilità. L’opera è così compiuta, in palese violazione con la Carta dei diritti del bambino nello sport dell’Unesco, stipulata nel 1992 come naturale conseguenza alla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. Per indagare su questo fenomeno, presente su tutti i campi di gara, abbiamo chiesto delucidazioni al professor Diego Polani, presidente nazionale della Società Professionale Operatori in Psicologia dello Sport e delle Attività Motorie, cattedra di Psicologia dello Sport alla Facoltà Scuola di Scienze e della Salute Umana di Firenze, psicologo della Nazionale di nuoto di fondo e collaboratore del Settore Istruzione Tecnica della Federazione Italiana Nuoto.
Quanto è diffuso in Italia il problema dei genitori oppressivi in ambito sportivo?
Purtroppo ancora molto, in particolare laddove si creano delle alleanze inconsce tra tecnici impreparati e genitori che intendono diventare qualcuno tramite i figli. Nel calcio c’è poi la speranza, e tale rimane nel 99,98% dei casi, di diventare i genitori di un Totti o di un Del Piero del futuro. Quindi al diavolo educazione, scuola ecc, solo calcio… ma poi?
Quali le possibili cause che scatenano ansia, oppressione e voglia di diventare i manager-allenatori dei figli? E perché i genitori sono quasi sempre convinti di essere dalla parte della ragione?
In letteratura si afferma che le cause scatenanti sono spesso dovute alla ricerca di quei risultati, o da quelle affermazioni, che da giovani non sono riusciti ad avere, o che in alcuni casi non riescono ad avere anche in età matura, come una sorta di rivalsa. Per fare un paragone con il mondo dello spettacolo pensiamo a tutti quei genitori che spingono le loro figlie a fare il concorso per diventare veline; mi viene in mente a tale proposito quel film attualissimo con Anna Magnani dal titolo “Bellissima”. Ecco in quel film viene analizzata in maniera puntigliosa l’ansia da prestazione indiretta vissuta dalla madre che vuol fare della figlia una grande attrice. Oggi purtroppo, in una società sempre più povera di valori, troviamo anche genitori che per vedere il proprio figlio in “serie A” sono disposti ad andare, a livello comportamentale, oltre le righe del vivere civile. Altri, invece, si sentono in dovere di dare sempre ragione ai propri figli per supplire a quella carenza di affetto che si esplicita durante la settimana con quel menefreghismo che spesso viene mascherato dallo stress del lavoro.
Lei scrive: “Genitori, allenatori e società sportive si coalizzano in una ricerca spasmodica di performance e risultati spesso senza chiedersi se davvero tutto ciò possa fare del bene al bambino o non risponda invece a interessi o desideri che non gli appartengono”[Genitori si, genitori no! L’importanza di una corretta educazione]. Si può dunque ricondurre il tutto alla teoria ingenua secondo cui i genitori spesso vogliono essere, tramite i figli, ciò che in passato, in ambito sportivo e non solo, non sono stati?
Esistono casi del genere, ma essenzialmente esiste una seria carenza di contatto tra generazioni. Oggi spesso i figli non si conoscono, alcuni li comprano con tanti regali, sicuramente si evidenzia una vera mancanza di dialogo profondo che permetta ai genitori ed ai figli di imparare ad ascoltarsi. L’ascolto prevede tempo, pazienza ed empatia, aspetti che nella frenesia del vivere quotidiano si tende ad annullare. Piangi.., ti compro il telefonino (poi se è dannoso alla salute non è un mio problema), ti compro la play station (poi se compaiono casi di epilessia a gioco, io non c’entro), ti regalo la minimoto (poi se si ammazza senza sapere come si guida è colpa dell’altro), e così via.
L’affermazione di Carl Gustav Jung, “Se c’è qualcosa che desideriamo cambiare nel bambino, dovremo prima chiederci se non sia qualcosa che faremmo meglio a cambiare in noi stessi” costituisce l’unica domanda che un genitore opprimente dovrebbe farsi di fronte allo specchio tutte le mattine?
Direi che è una delle domande che un qualsiasi genitore dovrebbe farsi, ma anche i maestri e i professori a scuola, i tecnici sportivi, i nonni, ecc.
Come dovrebbe comportarsi un tecnico di fronte a decise prese di posizioni da parte dei genitori che, sulla base di assurde motivazioni, pretendono un certo trattamento nei confronti dei figli e programmano la loro vita sportiva?
I tecnici dovrebbero avere quella preparazione professionale direi oramai universitaria, come nel resto del mondo, tale da poter affrontare con assertività e autorevolezza tutti coloro che non conoscono i rudimentali aspetti della crescita motoria al fine di spiegare con tranquillità le scelte tecniche che spesso sono opposte ai desideri anche onestamente validi di ogni genitore. Un esempio su tutti: molte società natatorie e moltissimi tecnici della FIN (Federazione Italiana Nuoto) hanno sviluppato una campagna nel 2008 contro i costumoni tecnici per le categorie giovanili in quanto diseducativi sia a livello motorio che sportivo.
Tra le conseguenze che lei cita, si trovano l’abbandonare l’attività o il ricercare a tutti i costi il risultato. Vi sono altre conseguenze per l’atleta, sia a livello psicologico che sociale? Si potrebbe ipotizzare una non positiva percezione da parte dei compagni di squadra e quindi una tendenza a lasciare isolato il soggetto?
L’abbandono precoce è uno dei tanti aspetti che si possono verificare in situazioni stressanti come queste. Alcuni invece sono stati talmente “pompati” che pur di accontentare i loro mentori (genitori o tecnici che siano) arrivano ad assumere anche medicine illegali pur di dimostrare la loro forza. È sicuramente un’educazione che tende a creare personalità non sicure con bassa autostima con incapacità alla relazione e con conseguenze di vita futura immaginabili.
Spesso, in tribuna, si sentono incitazioni verso i figli che puntano sulla distruzione dell’avversario e quindi sull’aggressività, più che sulla crescita sportiva del proprio figlio. Perché rimane sconosciuto il concetto di sportività?
Il tutto è dovuto ad una vera mancanza educativa. I genitori non sono in linea di massima dei mostri che vogliono sfruttare i figli, spesso sono persone che hanno bisogno di imparare ad avere una vera e reale relazione con i propri figli. Per questo penso che si dovrebbero attivare presso le società sportive, o presso un coordinamento di società sportive con i comuni, le circoscrizioni, ecc. dei seminari per educare i genitori dei futuri atleti. Questo probabilmente potrebbe anche essere un modo per iniziare a risolvere il tragico argomento della violenza negli stadi.
Sempre nel suo scritto, lei propone una frase bellissima: “La sconfitta non esiste senza vittoria, è l’altra faccia della medaglia, vista in questa prospettiva essa diventerà uno stimolo per progredire, con conseguente rafforzamento dell’autostima”. Troppa pressione addosso può portare a non accettare mai il concetto di sconfitta? Con quali conseguenze per l’atleta?
Un atleta che non conosce la “sconfitta” è un atleta che non sa vivere in funzione di un obiettivo reale. Un esempio, oggi si dice che l’iper-attenzione su ciò che toccano i bambini sta portando ad avere bimbi con poche difese immunitarie. Una volta ci si rotolava per terra, si mettevano le mani in bocca, si cadeva dalla bicicletta, insomma si imparavano situazioni che ci preparavano alla difesa psichica e fisica. Lo stesso in gara se non si vive almeno una volta la sconfitta non si sa reagire in maniera positiva, e questo può portare a comportamenti deviati.
Come si impara ad accettare la sconfitta, a gestire la rabbia derivante dalla frustrazione e a non lasciarsi sopraffare da queste emozioni? Quanto conta, in queste circostanze, l’educazione del genitore?
La sconfitta in linea di massima non fa piacere a nessuno, gestire invece la sconfitta vivendola come un’esperienza allenante è fondamentale. Un atleta giovane non deve essere portato a vivere le gare come l’ultima possibilità della sua vita, ma come dei mezzi allenanti in funzione di un obiettivo a lungo termine,e quindi situazioni che possono essere rivissute in maniera diversa. Di fatto la gara della vita può essere considerata la finale olimpica, non un campionato provinciale, regionale o nazionale giovanile. Tanti sono i fattori psico-fisiologici che cambiano nella crescita con conseguenze prestative diverse.
Che succede quando è il genitore a non accettare la sconfitta del figlio, dopo averlo messo su un piedistallo e averlo già immaginato con la medaglia d’oro al collo?
Può succedere di tutto. L’avvicinamento al figlio, nei migliori dei casi, con il riconoscimento degli errori fatti. Nei casi estremi l’allontanamento (almeno emozionale) nei confronti di colui che ha riportato a galla le immagini e le impressioni di sconfitte già vissute.
Cosa consiglierebbe per praticare un’attività più serenamente?
Concedere del tempo all’educazione dei ragazzi e dei genitori. Basterebbe spendere una piccola parte del denaro pubblico in progetti gestiti da veri e preparati professionisti, e non dai soliti “acchiappa contributi” di grande preparazione clientelare politica ma poco preparati professionalmente nella maggioranza dei casi, per creare giornate educative insieme agli enti pubblici ed alle scuola. Sono sicuro che questi soldi spesi in questi progetti potrebbero un domani far risparmiare molti più soldi che oggi spendiamo per affrontare la violenza negli stadi, la lotta al doping, ecc.